Sono già passati più di venti giorni dall’inizio dell’isolamento e la ripresa delle attività è posticipata di settimana in settimana. L’invito a non uscire di casa, dapprima un’eco proveniente da pubblicità televisive, radio, titoli di giornale, è ora una disposizione ministeriale. Chi viene colto a passeggiare per strada senza necessità impellenti rischia ingenti multe, compie un reato. Di conseguenza le strade sono vuote, le serrande dei negozi sono abbassate, e nelle città domina il silenzio assoluto, rotto dal motore di qualche auto o, più spesso, dalla sirena di un’ambulanza.
L’atmosfera è gelida, neanche il sole primaverile riesce a intiepidirla. Chi passeggia per strada solo e con la mascherina evita di sfiorare gli estranei o anche solo di ripercorrere i passi di una persona passata poco prima: si ha paura del contagio.
Il suo nome rimbomba nelle nostre orecchie, tutto il giorno: Covid-19. La sua diffusione è ampia e incontrollabile. In Italia, seconda nazione al mondo per contagiati e morti, si contano ad oggi circa 65 mila contagiati e 6.000 decessi. Ma non siamo i soli a lottare contro il virus e ad adottare simili misure drastiche e necessarie: ormai ci sono circa 350 mila malati di Coronavirus sparsi in tutto il mondo, e l’incontenibile ondata di contagio ha convinto l’Organizzazione Mondiale della Sanità a decretare lo stato di pandemia.
Mentre team di scienziati analizzano campioni del virus in laboratorio e sperano di rendere disponibile il primo vaccino in qualche mese, gli ospedali sono gremiti di pazienti con gravi problemi respiratori: se infatti i sintomi della malattia assomigliano a quelli di un’influenza, è altrettanto vero che la stessa malattia può degenerare fino a richiedere un posto in terapia intensiva e un respiratore.
«Non c’è più tempo. Servono nuovi ospedali, non domani, ma ora. Servono nuovi professionisti, non persone improvvisate. Siamo come soldati gettati al fronte senza protezioni. Rischiamo di portare il virus a casa, siamo stremati»
Questo è l’appello lanciato dalla Federazione nazionale degli ordini delle professioni sanitarie, i cui medici e infermieri lavorano fino allo sfinimento giorno e notte dimostrandosi in questo momento più che mai esempi di cura per l’intera società. Quello che spinge i medici e gli infermieri a non cedere alla stanchezza e al dolore per le ferite e i lividi dei dispositivi di protezione (molte sono le foto pubblicate in questi giorni sui social) è l’amore per il loro lavoro, l’amore per la cura.

Prestare servizio significa esporsi al virus, e soprattutto all’inizio di quest’anno i medici ne sono venuti a contatto ignari della possibilità di contagio: circa il 9% dei contagiati in Italia ha un’occupazione in ospedale. E l’esposizione al virus permane, poiché molte strutture difettano di DPI adeguati. Ma il personale sanitario, per senso di responsabilità e desiderio di rendersi utile, sta in ogni caso vicino ai pazienti che non possono ricevere visite dai familiari e lottano, soli su una brandina della terapia intensiva, contro il virus. Come le luci sono sempre accese in corsia, anche il rischio che la mascherina non aderisca e che le lenti non abbiano coperto tutti gli occhi esiste 24 ore su 24.
“Soldati al fronte”, “angeli”, “eroi”: questi sono solo alcuni degli appellativi con cui vengono ringraziati i medici e gli infermieri, che rispondono ricordandoci che il servizio prestato ora in tempo di emergenza sanitaria è lo stesso a cui adempiono per tutto l’anno. Più che elogi, il personale sanitario chiede aiuti concreti: «Abbiamo bisogno anche di voi cari cittadini, ogni uscita di casa apre la porta al virus. Non possiamo più permettercelo, non c’è più tempo». La dedizione infinita del personale sanitario potrebbe essere vana se anche solo uno di noi non collabora attenendosi ai decreti sulla quarantena.

Stare in isolamento è perciò attualmente la maggiore forma di altruismo: curando la nostra stessa salute, ci prendiamo cura di chi è più fragile e in pericolo. Perché tutti, in fondo, siamo chiamati a rispettare i “principi etici della solidarietà umana” (cit. Giuramento di Ippocrate), chi in corsia, chi a distanza.
Francesca Ferragina, III C
