I Pazzi non esistono

Camminare in giro per strada osservando le macchine che sfrecciano sull’asfalto, leggere le targhe e fare la somma dei numeri, se è pari andrà tutto bene, se è dispari succederà qualcosa di tremendamente orribile. Uscire di casa e tornare alla porta infinite volte di seguito per controllare di averla chiusa bene. Delirare se ogni cosa non va perfettamente come deve andare. Pesare pochi grammi, guardarsi allo specchio e vedersi enormi. Essere un momento estremamente frenetici, e quello successivo desiderare di lanciarsi dalla finestra. Convivere con delle voci in testa che impongono una vita impossibile.

Disturbo ossessivo compulsivo, disturbi del comportamento alimentare, disturbo bipolare, schizofrenia; una serie di gravissime patologie psichiatriche che spesso e volentieri, nel corso della storia, nell’ignoranza della mente umana, sono state riassunte sotto il termine di “pazzia”.

Nessuno degli individui affetti da queste patologie è però degno di un appellativo del genere. I pazzi non esistono. Esistono i malati, che come tali necessitano di cure e di affetto, di supporto da parte di famiglia ed amici.

Purtroppo si tende a pensare che le “malattie mentali” siano soltanto dei capricci. Nel corso dei secoli questi disturbi non hanno mai raggiunto, a livello sociale, la stessa dignità di altre patologie mediche. Si è sempre cercato di curare queste malattie attraverso l’isolamento e l’emarginazione, senza preoccuparsi troppo del fatto che i malati psichiatrici siano delle persone.

Una prova di ciò è senza ombra di dubbio l’invenzione del manicomio. Queste strutture governative furono istituite con la legge n. 36 del 14 febbraio 1904 intitolata “disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati.”

Quello che poi accadeva all’interno di quelle strutture non aveva niente a che fare con la cura. I pazienti, essendo stati dichiarati incapaci di intendere e di volere, venivano privati di qualunque cosa, venivano trattati come maiali in una stalla, obbligati a vivere una vita al limite dell’indecenza.

“Il manicomio era saturo di fortissimi odori. Molta gente orinava e defecava per terra. Dappertutto era il finimondo. Gente che si strappava i capelli, gente che si lacerava le vesti o cantava sconce canzoni. […] Qualcuno dei malati al colmo della disperazione, tentava di infierire, infierire su se stesso: e anche questo era giudicato malattia, e non si riconosceva al malato il suo diritto alla vita, il suo diritto alla morte. Quando una donna si tagliava le vene, veniva vituperata, dava scandalo. Nessuno andava a vedere quale groviglio di male o di pianto, o quale esterna sofferenza l’avesse portata a quella decisione.”

Queste righe sono tratte dal romanzo “L’altra verità” di Alda Merini, nel quale racconta la sua terribile esperienza vissuta all’interno di un manicomio. Un’esperienza fatta di camicie di forza, di farmaci, di elettroshock, di solitudine e di sofferenza. Un’esperienza che dal punto di vista medico, riguardo il suo disturbo psichiatrico, non ha portato a nessun miglioramento.

Oggi, fortunatamente, l’idea di manicomio è stata sorpassata, ma nell’immaginario collettivo esiste ancora l’idea del “pazzo da rinchiudere”. Questo perché l’immaginario collettivo è estremamente ignorante. Non si può certo negare che molti disturbi psichiatrici siano effettivamente pericolosi anche per chi sta vicino al malato, ma non è certo etichettando, emarginando o trattando queste persone come animali che si risolverà il problema.

Matilde Secchi

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