Cura ai tempi del Covid-19 : Chi ha più diritto di essere curato?

Tutte le vite degli esseri umani sono importanti allo stesso modo, ma in tempi di emergenza come questo, a causa del Corona virus, dato che i respiratori non possono bastare per tutti, si deve seguire una piramide d’importanza per curare i pazienti o non si deve seguire alcun criterio e quindi curare chi arriva per primo in ospedale?

L’articolo 2 dei Principi fondamentali della costituzione italiana dice che :

“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.”

Quindi attenendosi all’articolo 32 (Parte I, Titolo II) della Costituzione italiana:

“ La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”
, ogni persona ha il diritto di essere curata.

Ma in questo caso di emergenza, dove a causa del Coronavirus molte persone sono impossibilitate a respirare, e quindi hanno bisogno dell’aiuto dei respiratori (che non bastano per tutti) per riuscire a sopravvivere, come si devono comportare i medici?

Riflettendo sulla possibile risposta a questa domanda, si possono trovare varie categorie di pensiero. Non siamo in grado però di decidere quale tra queste sia la più giusta sotto il punto di vista umano e razionale, poiché non possiamo esaminare a fondo la vita di ogni persona contaminata, come la vive o quanto sia importante la sua esistenza per la società.

I giovani hanno più diritto di essere curati degli anziani?

Dal punto di vista morale e legislativo queste due categorie di persone hanno lo stesso diritto di essere curate, ma dal punto di vista razionale?

I giovani hanno, genericamente parlando, ancora tutta la vita davanti, a differenza degli anziani che hanno vissuto la maggior parte della loro vita sulla terra e sono quindi prossimi al termine di essa. I giovani studiano o lavorano, sono, o saranno, quindi utili per la società e per l’economia italiana, la quale in questo periodo sta affrontando un drastico calo del Pil.

Le persone con meno anni di età hanno anche più probabilità di guarire, ma non per questo le persone con età più avanzata non hanno nessuna speranza di guarire, un esempio è Italica, la donna di 102 anni che è riuscita a guarire dal Coronavirus.

A cura di Matilde Matteucci e Lara Ognibene.

La cura nel 20° secolo

In questo articolo andremo a parlare di una figura molto rilevante, Don Lorenzo Milani, che introdusse in Italia il motto inglese “I CARE “(letteralmente “mi interessa”) che andava espressamente contro quello fascista, “ME NE FREGO“.

Il prete nacque da Albano Milani e da Alice Weiss in una famiglia benestante. Il padre era un chimico appassionato di letteratura mentre la madre proveniva da una famiglia di ebrei che si erano trasferiti a Trieste per lavoro. Lorenzo aveva inoltre un fratello e una sorella.

La chiesa e la scuola di Barbiana

Il tema della cura quindi era già presente al tempo di Don Milani (1923,1967) che nella piccola città di BARBIANA si occupò di aprire una scuola per tutti che non aveva il fine di essere inclusiva, ma piuttosto di accogliere quanti più alunni possibili, ai quali veniva dato lo stesso livello di istruzione, cancellando quindi le differenze che fino a quel tempo erano causate dal ceto sociale di ognuno.

In questa piccola istituzione il tema della cura è comunque sempre presente: all’ingresso della scuola infatti, era affisso un cartello con su scritto proprio il motto di Don Milani, “I CARE “. Questo indicava le finalità educative della scuola, che era orientata non solo sull’istruzione scolastica, ma anche sulla formazione civile e sociale.

In seguito alla morte di Don Milani molte istituzioni hanno seguito le sue orme riutilizzando anche il suo motto.

Catarsi, Magnani

LA RIVOLUZIONE DEGLI HOPE

“Poter pensare che persone con disagio mentale, dopo un percorso di cura, possano aiutare coloro che stanno seguendo nello stesso cammino, è una rivoluzione.”


“Il primo obiettivo è quello di realizzare un modello di accoglienza basato sulla spontaneità del condividere spazi e tempi di vita, in un quadro flessibile.”

~Fareassieme~

Per info: fareassieme.com

In un mondo dove prendersi cura degli altri è sempre più trascurato, possiamo trovare conforto nel sapere che ci sarà sempre qualcuno che ha passato la tua stessa esperienza pronto ad aiutarti.

Un esempio è il cambiamento radicale che hanno fatto gli Hope (Homeless peer), che dedicano la loro vita al prossimo. Gli Hope possono essere definiti come “utenti esperti”. Questo termine però è riduttivo poiché essi non sono solamente coloro che, grazie all’esperienza e alle conoscenze acquisite attraverso questa, aiutano nell’organizzazione dei servizi in un determinato ambito. Infatti la loro peculiarità sta nell’atto di creare un legame profondo con le altre persone di cui si occupano, grazie alla condivisione di esperienze e problematiche comuni. Quindi la base del loro lavoro è costituita dall’empatia e dalla capacità di e rivedersi nelle situazioni altrui, dispensando consigli e suggerimenti per affrontare questa difficile situazione.

Come affermano i membri del Fareassieme, questo tipo di attività aiuta inoltre i pari a sviluppare un senso di responsabilità e a far crescere la fiducia in loro stessi. Per di più, condividere i loro spazi e tempi di vita li abitua ad una flessibilità maggiore nel mondo reale, insegnando loro il potere della condivisione e dell’adattamento.

Inoltre esistono luoghi dove uomini e donne adulti senza dimore possono vivere a contatto con persone nella loro stessa situazione e intraprendere un percorso di crescita collettivo. Queste case hanno un totale di 13 o 14 posti letto e contengono anche zone comuni (giardino, cucina e soggiorno) e gli uffici degli Hope. Qui i coinquilini imparano la gestione degli spazi comuni e a prendersi cura delle aree all’aperto, come orti e giardini. Sono infine presenti dei referenti notte per aiutare gli abitanti della casa durante le ore in cui le fragilità e le insicurezze tendono ad essere amplificate.

Secondo noi, avere la forza di prendersi cura di persone che stanno passando gli stessi incubi che si sono provati sulla propria pelle, è un atto da lodare e da cercare di emulare. Nel mondo servirebbero più persone con tale coraggio e altruismo, per cercare di aiutare tutti coloro che dalla vita hanno ricevuto più sofferenze che momenti di felicità. Quindi vogliamo mandare un grande ringraziamento agli Hope e al loro lavoro che permette agli uomini e alle donne di essere un po’ più solidali ogni giorno e avvicinarsi quindi ad un mondo dove ognuno è pronto ad aiutare il prossimo.



A cura di Giulia Bonciani e Eleonora Lillo

I Pazzi non esistono

Camminare in giro per strada osservando le macchine che sfrecciano sull’asfalto, leggere le targhe e fare la somma dei numeri, se è pari andrà tutto bene, se è dispari succederà qualcosa di tremendamente orribile. Uscire di casa e tornare alla porta infinite volte di seguito per controllare di averla chiusa bene. Delirare se ogni cosa non va perfettamente come deve andare. Pesare pochi grammi, guardarsi allo specchio e vedersi enormi. Essere un momento estremamente frenetici, e quello successivo desiderare di lanciarsi dalla finestra. Convivere con delle voci in testa che impongono una vita impossibile.

Disturbo ossessivo compulsivo, disturbi del comportamento alimentare, disturbo bipolare, schizofrenia; una serie di gravissime patologie psichiatriche che spesso e volentieri, nel corso della storia, nell’ignoranza della mente umana, sono state riassunte sotto il termine di “pazzia”.

Nessuno degli individui affetti da queste patologie è però degno di un appellativo del genere. I pazzi non esistono. Esistono i malati, che come tali necessitano di cure e di affetto, di supporto da parte di famiglia ed amici.

Purtroppo si tende a pensare che le “malattie mentali” siano soltanto dei capricci. Nel corso dei secoli questi disturbi non hanno mai raggiunto, a livello sociale, la stessa dignità di altre patologie mediche. Si è sempre cercato di curare queste malattie attraverso l’isolamento e l’emarginazione, senza preoccuparsi troppo del fatto che i malati psichiatrici siano delle persone.

Una prova di ciò è senza ombra di dubbio l’invenzione del manicomio. Queste strutture governative furono istituite con la legge n. 36 del 14 febbraio 1904 intitolata “disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati.”

Quello che poi accadeva all’interno di quelle strutture non aveva niente a che fare con la cura. I pazienti, essendo stati dichiarati incapaci di intendere e di volere, venivano privati di qualunque cosa, venivano trattati come maiali in una stalla, obbligati a vivere una vita al limite dell’indecenza.

“Il manicomio era saturo di fortissimi odori. Molta gente orinava e defecava per terra. Dappertutto era il finimondo. Gente che si strappava i capelli, gente che si lacerava le vesti o cantava sconce canzoni. […] Qualcuno dei malati al colmo della disperazione, tentava di infierire, infierire su se stesso: e anche questo era giudicato malattia, e non si riconosceva al malato il suo diritto alla vita, il suo diritto alla morte. Quando una donna si tagliava le vene, veniva vituperata, dava scandalo. Nessuno andava a vedere quale groviglio di male o di pianto, o quale esterna sofferenza l’avesse portata a quella decisione.”

Queste righe sono tratte dal romanzo “L’altra verità” di Alda Merini, nel quale racconta la sua terribile esperienza vissuta all’interno di un manicomio. Un’esperienza fatta di camicie di forza, di farmaci, di elettroshock, di solitudine e di sofferenza. Un’esperienza che dal punto di vista medico, riguardo il suo disturbo psichiatrico, non ha portato a nessun miglioramento.

Oggi, fortunatamente, l’idea di manicomio è stata sorpassata, ma nell’immaginario collettivo esiste ancora l’idea del “pazzo da rinchiudere”. Questo perché l’immaginario collettivo è estremamente ignorante. Non si può certo negare che molti disturbi psichiatrici siano effettivamente pericolosi anche per chi sta vicino al malato, ma non è certo etichettando, emarginando o trattando queste persone come animali che si risolverà il problema.

Matilde Secchi

Gli Hope

Il tema dei senzatetto è un tema che, ai giorni nostri, è quantomai più attuale in questa situazione di emergenza in cui siamo stati catapultati. Per aiutare queste persone, a Trento, viene offerta la possibilità di riscattarsi e di riacquistare un po’ di dignità lavorando in una biblioteca. Questo riscatto non è solo di natura sociale ma anche personale perché vengono chiamati non più homeless peer ma hope, ovvero speranza, e questo infonde in loro la forza di cambiare la loro condizione e far vedere a tutti le loro capacità e le loro potenzialità in quanto persone e cittadini appartenenti alla società. Gli Hope non devono essere inquadrati solo come persone che necessitano di aiuto ma anche come coloro che sono riusciti a raggiungere un obiettivo e che in futuro possano essere utili in un percorso di crescita e di realizzazione personale di altre persone che si trovano in difficoltà fornendo un esempio in prima persona che cambiare si può ed è positivo. A mio avviso dovrebbe essere favorito il reinserimento di queste persone nella società in modo da abbattere le barriere dei pregiudizi che ci separano e impediscono il dialogo, utile per avviare una conoscenza e una comprensione reciproca. In alcune città potrebbero essere utilizzate molte chiese sconsacrate o altri edifici per aiutare i senzatetto. Una abitazione migliorerebbe non solo la loro condizione fisica ma anche quella mentale.

La cura
Per quanto riguarda il tema della cura credo che queste persone abbiano bisogno di qualcuno che si prenda cura di loro che voglia il loro bene e che affidi loro degli incarichi in modo da farli sentire importanti e indispensabili per permettere loro di riacquistare la dignità perduta. In futuro gli Hope potrebbero prendersi cura degli altri in modo da far incrementare l’efficienza di questa rete di solidarietà che in questi momenti difficili è fondamentale a causa delle risorse umane che scarseggiano e per la funzione che svolge. Prendersi cura del prossimo è anche un insegnamento cristiano e lo stesso San Francesco diceva che le persone dovessero essere convertite con il proprio esempio e non a parole. Per prendersi cura dobbiamo dare loro la possibilità di essere indipendenti e quindi di ottenere, con il passare del tempo, un nuovo lavoro che non abbia niente a che fare con la comunità e le persone che li hanno aiutati ad uscire dalla loro situazione precedente.

Emergenza freddo, 89 senza tetto accolti dal volontariato modenese

IO HO CURA, IL PROGETTO CHE CURA IL PROSSIMO

“Io ho cura” è un progetto finalizzato al coinvolgimento attivo degli studenti di 13 classi del Liceo scientifico U. Dini, al Programma nazionale di educazione alla cittadinanza.Questo progetto ci è stato esposto nelle ore di PCTO (Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento) dalla Prof.ssa Benedetta Castellini.

“Io ho cura” quindi, come si evince dal nome, ha lo scopo di prendersi cura degli altri, laddove chi dovrebbe occuparsene non se ne interessa.

Per raggiungere questo obbiettivo e colmare la lacuna che ha lasciato una società ormai indisponente verso il prossimo, il progetto propone alcuni argomenti fondamentali sui quali dovremo tutti soffermarci a pensare.

Fra questi individuiamo come più significativi, il concetto di indifferenza e quello, come principio cardine, di “cura verso il prossimo

In correlazione a questi temi, abbiamo analizzato due figure molto importanti, note per il loro altruismo: San Francesco che, come viene qui descritto “è un esempio luminoso di cura donata con gioia a chiunque ne avesse bisogno”; Don Milani, un altro importantissimo portavoce di altruismo e di cura per il prossimo.

Questo periodo, più di ogni altro, deve essere colmo di gesti di altruismo, per riuscire a superare quella che viene ormai classificata come “pandemia”. Pur essendo un argomento “spigoloso”, siamo riusciti a illustrarlo in un articolo molto approfondito e accurato.

Questo progetto è molto interessante e coinvolgente e consiglio a tutti voi di approfondire e di leggere giorno per giorno i nostri articoli!

Lorenzo Scippa, Isotta Rossi, Eleonora Famiglietti